lunedì 31 dicembre 2007

Vacanze d'inverno


Il nostro Presidente del Consiglio in vacanza invernale sulle nevi delle Dolomiti.
Gli Italiani riconoscenti ringraziano e augurano buone vacanze ed un buon riposo giusto e meritato.
Buon Anno Nuovo Signor Presidente.
Domenico Mazzullo d.mazzullo@tiscali.it


domenica 30 dicembre 2007

Risposta al commento di Roberto




Caro Roberto,

La ringrazio per aver scritto un commento al mio "Cesare Beccaria" e per le Sue parole di apprezzamento. Approvo e sottoscrivo il Suo pensiero e le Sue parole, alle quali voglio aggiungere solo qualche riga di commento.

Anche io, come Lei, sono piuttosto perplesso pur essendo, come ho detto, assolutamente contrario alla pena di morte, di fronte alle manifestazioni di gioia di chi ha promosso la moratoria, perchè ci si fa grandi di una vittoria che in fondo non è costata nulla, essendo paladini e difensori di una causa vinta in partenza e sulla quale non si può non essere, in linea di principio, altro che d'accordo. Lo stesso accade quando il Papa, mi si consenta l'accostamento, asserisce che dobbiamo essere tutti più buoni e amorevoli verso il nostro prossimo. Ci sarebbe qualcuno capace di smentirlo? Si tratta, anche in questo caso, di quelle dichiarazioni di principio ovvie ed universali, da tutti sottoscrivibili, che quindi non costa nulla fare e che per nulla impegnano chi le formula. D'altra parte è un vezzo storico inveterato presso noi italiani, essere sempre dalla parte di chi vince e poi gloriarci della vittoria, vedi ad esempio la conclusione della II Guerra Mondiale.

Questo successo poi all'ONU rientra e si inquadra perfettamente nel clima di "buonismo" che impera e vige nel nostro paese, nel quale la certezza dell'espiazione di una giusta pena è divenuta una realtà sempre più risibile e che sempre di più suscita l'ilarità negli altri paesi. In questo clima si inserisce e si spiega l'ultima beffa dell'indulto, in virtù del quale, essendo le carceri troppo affollate, si sono liberati dei criminali regolarmente condannati, perdonandogli, cancellandogli, con un tratto di penna, una parte della pena. Prossimamente, essendo gli ospedali troppo affollati, si utilizzerà lo stesso principio, dimettendo i pazienti, prima che siano guariti, rimandandoli a casa ancora ammalati. D'altra parte l'esperimento è già stato compiuto, chiudendo gli ospedali psichiatrici e sostituendoli con...niente.

A proposito di giusta pena e di perdono, mi tornano alla mente le parole di Simon Wiesenthal, l'uomo che, unico sopravvissuto della sua famiglia ai campi di concentramento, dedicò la intera sua vita alla caccia dei criminali nazisti, nel suo libro "Giustizia, non vendetta" :"il perdono offende le vittime". Giustamente Lei dice:"C'è una corsa a salvare e perdonare gli autori dei più efferati delitti e in pochi giorni non ci si ricorda più della vittima".

Lei mi chiede, se possiamo sperare in un futuro migliore per le prossime generazioni.
Caro Amico, io non sono nessuno e da psichiatra quale sono, non ho titoli per rispondere alla Sua domanda, ma da semplice uomo che cerca di osservare la realtà che ci circonda, posso dirLe di essere molto pessimista, perchè le "prossime generazioni", quelle dei più giovani, alle quali noi adulti dobbiamo passare il testimone, sono già penalizzate in partenza, essendo prive, per la maggior parte, di quella forza propulsiva, drammaticamente rivoluzionaria e innovativa rappresentata dagli ideali in cui credere e per cui battersi, per i quali si può anche sacrificare la vita, dal desiderio di cambiare il mondo per renderlo migliore, forza propulsiva che ha sempre animato la gioventù fino ad ora e che ancora anima un sempre più sparuto manipolo di persone che giovani non lo sono più.

Lei vorrebbe applicare la mia "pena di vita" ai nostri politici, condannandoli a vivere per sempre la vita di noi poveri e semplici cittadini, impegnati a sopravvivere dibattendosi tra una sanità pubblica che non funziona, pensioni offensive, una sicurezza che non esiste più e altre amenità del genere, costringendoli a rinunciare forzatamente ai privilegi di cui godono in quanto politici. Giustissimo. Sottoscrivo. Ma vorei rammentarLe che in Italia vige una democrazia, secondo la quale i nostri rappresentanti, i politici, sono stati liberamente da noi eletti a rappresentarci, in quanto sono stati da noi votati in libere elezioni. E' sufficiente non votarli più per liberarcene. Eppure noi continuiamo pedissequamente a votarli per poi lamentarcene. Dobbiamo convincerci, finalmente, che viviamo in una democrazia rappresentativa, nella quale siamo cittadini, eppure continuiamo a vivere come sudditi di una monarchia assoluta.

C'è una logica in questo? Forse perchè la libertà non ce la siamo conquistata con il sangue di una rivoluzione popolare come quella americana del 1776, o quella francese del 1789, ma ci è stata regalata dal sacrificio di pochi uomini illuminati che fecero il Risorgimento?
Grazie.



lunedì 24 dicembre 2007

Cesare Beccaria



Oggi è la vigilia di Natale, Gesù Bambino è in procinto di nascere, tra il bue e l'asinello, tutti ci sentiamo e siamo più buoni e....proprio oggi la notizia che un altro efferato, crudele, inaudito crimine è stato commesso contro una vittima innocente, colpevole solo di essere figlia di un notaio e quindi presuntivamente oggetto appetibile per un sequestro a scopo di estorsione.
Iole Tassitani è stata uccisa. Il corpo della donna rapita il 12 dicembre a Castelfranco Veneto è stato trovato nella notte in un garage di Bassano del Grappa: era stato fatto a pezzi e riposto in sacchi dell'immondizia.
Al cospetto di crimini di questa fatta e di una crudeltà così gratuita ed inaudita, si fa strada nell'animo di molti di noi il desiderio di una pena esemplare, nella fattispecie della pena di morte, come risposta immediata e definitiva a tali esempi di umana crudeltà. Per non cedere a questo desiderio, anche mio, dettato dal cuore, più che dalla ragione, ho riletto ancora una volta l'aureo libretto di Cesare Beccaria, l'illuminista illuminato autore di "Dei delitti e delle pene" e ancora una volta sono stato convinto dalle Sue ragioni.
L'Italia in questo momento è orgogliosa di aver promosso, presso le Nazioni Unite, la moratoria contro la pena di morte, e tutti sono felici e contenti di questo risultato raggiunto, che alimenta il clima di buonismo imperante in questo paese, rassicurato anche dal fatto, e non comprendo perchè sia stato assicurato con tanta enfasi, che i criminali in questo ultimo caso siano rigorosamente italiani e non stranieri.
In questo clima di buonismo dicevo, che non condivido, non comprendo e mi lascia stupefatto, riflettendo sulla rilettura di Cesare Beccaria, Che ancora una volta mi ha convinto, mi è balzata subitanea ed improvvisa alla mente una domanda: ma perchè non condannare questi bestiali criminali alla "pena di vita", in antitesi alla "pena di morte", ossia ad una vita dalle condizioni così drammaticamente afflittive, da essere invocata, da loro stessi, la pena di morte, che naturalmente verrebbe negata in ottemperanza alla risoluzione delle Nazioni Unite così fortemente voluta proprio dall'Italia?
Buon Natale a Tutti.
Domenico Mazzullo d.mazzullo@tiscali.it www.studiomazzullo.com

mercoledì 19 dicembre 2007

Le donne, i cavalier, l'arme, gli amori, le cortesie, l'audaci imprese...




Quando ero bambino e mio padre mi insegnava il galateo e la logica alle sue regole sottesa, ricordo che mi spiegava che spetta sempre all'uomo difendere e proteggere la donna in ogni occasione e circostanza, per questo l'uomo deve sempre precedere la donna quando si scendono le scale e seguirla quando si salgono, l'uomo deve sempre varcare per primo la soglia quando si entra o si esce da un locale chiuso, deve aprire e chiudere la porta della carrozza, o dell'auto che dir si voglia, deve sempre offrire alla donna il lato del muro, quando si è in istrada e esporsi al pericolo delle auto che sopravvengono, o di eventuali malintenzionati.
Leggo però sulla stampa di oggi: "Prodi contestato in strada. La moglie Flavia lo difende".
Segno dei tempi che cambiano? Non esistono più gli uomini di una volta? Oppure il Presidente Prodi non è in grado di difendersi da una donna che lo contesta?

Domenico Mazzullo d.mazzullo@tiscali.it

martedì 11 dicembre 2007

M.llo Capo Ferro Francesco

Ho ricevuto con grandissima emozione e commozione il commento del Maresciallo Capo Francesco Ferro in risposta al mio articolo.
Ancora una volta, con le Sue parole, il Maresciallo ci offre e mi offre una lezione di modestia, umiltà e senso del dovere di cui, credo tutti, dobbiamo esserGli grati.
Al Maresciallo Ferro vorrei chiedere, se ancora legge il mio blog e se Gli fa piacere, di inviarmi il Suo recapito per poterGli scrivere personalmente e idealmente stringerGli la mano.
Grazie.
DomenicoMazzullo
d.mazzullo@tiscali.it
www.studiomazzullo.com

domenica 9 dicembre 2007

Carabinieri


Non leggo, nè ascolto mai le barzellette sui Carabinieri, perchè proprio non mi piacciono e quando, ahimè, sono costretto tuttavia ad ascoltarle, raccontate da qualche cretino di turno, non rido mai, nemmeno fingendo per cortesia, perchè mi sembrano sciocche e offensive nei confronti di Chi continua a rischiare la vita quotidianamente per difendere la Legge e uno Stato che spesso non si mostra molto riconoscente nei Suoi confronti.
Se la pistola di un criminale straniero non si fosse inceppata, dopo aver esploso due colpi, verso due Carabinieri che lo stavano arrestando, assieme ad altri tre complici, criminali stranieri anche loro, che lo incitavano a sparare ancora, oggi avremmo due Carabinieri in meno e quattro delinquenti in più in giro, a compiere altre rapine, come quella compiuta nel bergamasco, che è costata la vita a due di loro, uccisi dal legittimo fuoco di risposta dei due Carabinieri Che, pur feriti, sono riusciti ad arrestare i due criminali sopravvissuti.
Non vedo quasi mai la televisione, ma ieri, per fortuna ho potuto ascoltare la testimonianza del maresciallo Francesco Ferro, uno dei due Carabinieri feriti, in ospedale, che con grandissima modestia, a coloro, tanti, che lo definivano un eroe ha risposto: "Ho avuto tanta di quella paura...ma poi per istinto di sopravvivenza ho sparato" e ancora: "Ho visto due ragazzi feriti dai rapinatori e ho compiuto solo il mio dovere...".
Forse il maresciallo Ferro non ha letto a scuola "I doveri dell'uomo" di Giuseppe Mazzini, ma rappresenta una bellissima, eroica incarnazione, assieme a tanti altri Suoi colleghi, primo tra tutti Salvo D'acquisto, di questo Dovere. Grazie per la lezione che ci ha impartito.
Anni addietro, il 6 gennaio, assistetti ad una fugace, improvvisata intervista al telegiornale di un giovanissimo Carabiniere, all'indomani della morte di un suo collega, che al posto suo, per una casuale combinazione, era stato ucciso dai criminali della Uno bianca.
Alla domanda del giornalista, se essendo Carabiniere, provasse paura, con estrema dignità, tanto più particolare per la sua giovanissima età, rispose:" il problema della paura l'ho risolto, quando ho deciso di essere Carabiniere" e ancora alla domanda, se non si sentisse indifeso, non protetto rispondeva: "Sono io, Carabiniere, che devo difendere gli altri".
All'incauto intervistatore che ancora incalzava con la fatidica, sciocca domanda "cosa prova in questo momento?", rispondeva con lacrime dignitose e silenziose.
Io non so cosa sia ora di quel giovanissimo Carabiniere. Se quel giovane sia ancora un Carabiniere. Spero veramente di sì, perchè l'Italia ha bisogno di uomini come lui.
Domenico Mazzullo

Ancora voglia di sorridere?

Eva Ruscio, una giovane di appena 16 anni ricoverata nell' ospedale di Vibo Valentia per un ascesso tonsillare, muore per cause ancora imprecisate.
Nell'ospedale di Altamura, in provincia di Bari, una donna muore durante il parto.
Una donna di 36 anni di Pompei, incinta all'ottavo mese è morta dopo aver chiesto assistenza in quattro ospedali.
Con lei ha perso la vita anche il bambino.
Su tutte queste morti recentissime, indaga la Magistratura, ma il Ministro della Salute Livia Turco e il Presidente del Consiglio Prodi, hanno ancora tanta voglia di sorridere?

venerdì 7 dicembre 2007

Il disagio giovanile


Il disagio giovanile.
Tra bullismo ed apatia


Il Convegno si svolgerà Domenica 16 Dicembre 2007

presso la Biblioteca Comunale di Montesarchio (Benevento)


Questo convegno sul disagio giovanile rientra nelle iniziative che “Gli Amici dello Schiapparelli” promuovono a livello culturale e sociale, per contribuire, nelle loro possibilità e capacità al miglioramento della società in cui viviamo.
Il disagio giovanile è ormai evidentemente e purtroppo, un problema che ha raggiunto dimensioni gravemente preoccupanti e non solo in Italia, naturalmente, configurandosi come un fenomeno estremamente pericoloso, in quanto colpisce la popolazione giovanile che rappresenta, o dovrebbe rappresentare il futuro della nostra umanità.
Ancora più pericoloso poi, perché assume connotati multiformi e complessi, espressioni molteplici e fortemente differenti l’una dall’altra, che coinvolgono il singolo e la molteplicità della popolazione giovanile e che solo uno sforzo di analisi dei singoli fenomeni e successivamente di sintesi, alla ricerca di un comune denominatore, ci permettono di ricondurre ad una unica matrice etiologica, il disagio giovanile, appunto.
Bullismo e apatia, due estremi apparentemente diversi ed opposti, essendo il primo un fenomeno collettivo e che coinvolge una comunità, l’apatia un fenomeno singolo e che interessa ogni soggetto isolatamente, ma che si congiungono e si accomunano come espressioni diverse ed estreme di un medesimo disagio e sofferenza.
Il bullismo è un problema che plausibilmente è sempre esistito, sotto forme diverse ed in epoche diverse, pensiamo per esempio a Franti del libro “Cuore” e ai “Fratelli Paztor” de “I ragazzi della via Paal”, al nonnismo negli ambienti militari e nelle comunità maschili.
Più recente e sotto alcuni aspetti più preoccupante il fenomeno diffuso, della apatia giovanile.
Apatia nella sua etimologia dal greco, parola composta di “a privativo” e “pathos” passione, letteralmente significa mancanza, assenza di passioni, e già il termine nella crudezza del suo significato incute terrore e sgomento, ancor di più quando si riferisce ai giovani, che delle passioni sono stati sempre i maggiori depositari e fruitori.
Si pensa, infatti, all’età matura e avanzata, come l’età della saggezza perché il trascorrere degli anni e il peso degli avvenimenti visti e subiti, ci permette di vedere la vita dall’alto, non più schiavi e vittima delle passioni, quelle stesse passioni che invece giocano un ruolo da protagonisti nella vita degli adolescenti e dei giovani, facendo di questi i propulsori di ogni cambiamento in tutti gli ambiti della società e della cultura. Se la maturità, semplificando, è infatti prudente e conservatrice, la gioventù è rivoluzionaria e progressista e anche imprudentemente audace. Si pensi, infatti, allo “Sturm und Drang del Romanticismo, ai moti rivoluzionari e patriottici del Risorgimento, agli studenti di Curtatone e Montanara, a Carlo Pisacane, ai fratelli Bandiera, a Goffredo Mameli, ai Mille di Garibaldi, ai Giovani della Prima Guerra Mondiale.
Ma se queste passioni vengono meno, come purtroppo ora avviene nei giovani, sempre più diffusamente e frequentemente, conseguenza e sintomo di un profondo disagio e disaffezione alla vita, allora noi adulti dobbiamo seriamente preoccuparci, privati egoisticamente del motore propulsore della nostra società ed altruisticamente perché questi giovani sono già vecchi nell’animo.

Domenico Mazzullo

www.studiomazzullo.com

giovedì 6 dicembre 2007

Capire e comprendere


Ci siamo lasciati, nella puntata precedente con l’acquisizione che compito del medico è intuire, ipotizzare, capire, comprendere, spiegare, illustrare e curare.
Questi verbi, che solo apparentemente possono sembrare sinonimi ed espressione di una eccessiva ridondanza nello scrivere, in realtà sono momenti diversi e successivi di un processo cognitivo, diagnostico e terapeutico, che credo caratterizzi ogni medico, ma lo psichiatra in modo particolare e precipuo, anche se questi, nel procedere quotidiano ne è inconsapevole, o solo parzialmente consapevole.
Non vorrei essere noioso, ma ritengo opportuno soffermarmi un poco sull’argomento esaminando criticamente i singoli termini.
Al cospetto di un paziente con problematiche di tipo psichico il medico, infatti, lo psichiatra in ispecial modo, per primo intuisce, dalla percezione contemporanea, complessa e immediata di segni, segnali, espressioni del viso e degli occhi soprattutto, movenze, atteggiamenti, abbigliamento, inflessioni della voce e toni di questa, pause ed esitazioni, insomma da un coacervo di “messaggi” inconsapevolmente inviati dalla persona che ha di fronte, l’esistenza di un possibile problema. Sulla base di questa intuizione, prende forma e corpo una ipotesi diagnostica che deve essere approfondita, confermata, o smentita. E’ quanto abbiamo visto avvenire nel colloquio che il medico ha avuto con il nostro paziente, nelle puntate precedenti. Dopo aver lasciato, infatti, che questi parlasse liberamente, liberamente enumerando le lagnanze, i disturbi, che maggiormente lo affliggono e lo preoccupano, con le inevitabili autointerpretazioni ed autodiagnosi, spesso purtroppo frutto di un troppo facile psicologismo ormai imperante dappertutto, fornendo così al medico già degli indizi importanti, non tanto per i contenuti, ma piuttosto per la forma e soprattutto per le priorità con le quali vengono enumerati, il medico porrà a questo punto delle domande prima più generiche e successivamente sempre più specifiche al proprio paziente, tese a confermare, o smentire la sua primitiva ipotesi.
Voglio fin d’ora precisare che queste domande rivolte al paziente, non hanno solamente e si fermano ad uno scopo puramente, diagnostico, ma vanno ad interessare un ambito già più specificatamente terapeutico.
Se l’intuizione del medico è giusta e l’ipotesi è confermata dalla indagine del colloquio e il paziente è realmente affetto da depressione, allora le stesse domande del medico, che spesso prevengono le doglianze del paziente, che fanno riferimento a disturbi specifici minori plausibilmente dimenticati dal paziente nella sua enumerazione di sintomi, perché distolto da altri ritenuti più importanti, che indagano su aspetti privati della sua vita che questi ha tralasciato di toccare, ottenendo, queste domande, presumibilmente, dal paziente una risposta affermativa, se l’ipotesi diagnostica è giusta e corretta, esse domande portano comprensibilmente ad una rassicurazione del paziente stesso, che si sente sempre di più capito e compreso, assicurato e rassicurato, dalla certezza che il suo interlocutore ha piena coscienza delle sue sofferenze, che conosce il suo problema, che è disposto e sa come aiutarlo, che non farà appello come tanti fino ad ora hanno fatto, alla sua buona volontà, che non lo esorterà a farsi forza, a reagire, a non lasciarsi andare, visto che in fondo i suoi problemi non sono poi così gravi e unici, ma sono quelli che affliggono tutta l’umanità, assumendo spesso toni critici e di rimprovero più o meno espliciti, con l’indubbio, brillante risultato di far sentire il paziente sempre più in colpa e aggravare così ulteriormente la sua depressione.
In questo modo il medico esaudisce e compie due fondamentali momenti della sua professione: capire e comprendere, che solo apparentemente sembrano sinonimi, ma in realtà sono entrambi indispensabili, nella loro diversità e peculiarità al suo dovere nei confronti del paziente.
Capire, implica, infatti, un processo intellettuale, logico e deduttivo, analitico che permette al medico di formulare una diagnosi e giungere attraverso questa ad una terapia corretta. Ma il solo capire, non è sufficiente al medico che voglia essere integralmente tale e non voglia, invece, essere solo un tecnico della Medicina. E’ necessario, infatti, un secondo passaggio, di tipo emotivo, umano, affettivo, quello del comprendere il paziente nella sua interezza e non solo come portatore di una malattia, del comprendere il paziente, con la sua malattia, come essere umano sofferente, impaurito, timoroso, in ansia per la sua sorte, debole e fragile, portato a sentirsi in una condizione di inferiorità e di soggezione, verso gli altri, tutti e in special modo verso il medico stesso. Comprendere il paziente nel suo mondo, nella sua famiglia, con i suoi valori, specifici e personali, con le sue debolezze e le sue paure. Questo vale per tutti i pazienti e per i loro medici, ma in ispecial modo per i pazienti psichiatrici e per gli psichiatri che desiderano curarli. Solo in questo modo si supera il divario che separa il paziente come “portatore di malattia” dal paziente come “essere umano ammalato e sofferente”.
A questo punto il compito del medico si accresce e per così dire si complica di prerogative “didattiche” che assolutamente non debbono e non possono essere trascurate, o relegate a poche parole stentate, o ad indicazioni scritte su un foglio di ricettario.
Compito indispensabile del medico, ma dello psichiatra in modo particolare è quello di spiegare ed illustrare con termini comprensibili ed adatti al livello culturale del paziente, la sua situazione e non certo limitarsi a dare un nome alla malattia senza ulteriori spiegazioni.
Questo compito è particolarmente difficile ed arduo per lo psichiatra, perché, è inutile negarlo, la malattia psichica fa sempre paura e si è portati, da parte del paziente e soprattutto dei familiari ad un rifiuto dell’accettazione di questa. Inoltre riesce sempre difficile far comprendere ad un paziente sofferente di problemi psichici che i suoi disagi ed i suoi problemi possono essere espressione di una patologia come tutte le altre. Ma anche è da prendere in considerazione il fatto che problemi psichici, che si esprimono con un disagio ed una sofferenza a questo livello, spesso sono legati a molti fattori, quali la personalità stessa del paziente, il suo mondo di valori, la situazione personale e familiare, l’ambito lavorativo e condizioni socio-economiche. Di tutti questi elementi deve necessariamente tener conto il medico nell’accingersi a curare il suo paziente.
Lo psichiatra, con pazienza, fiducia, ma anche fermezza, deve far comprendere al paziente di cosa soffre, quali sono le cause della sua sofferenza, quali sono gli strumenti per curarle e la possibilità di guarigione.
Giungiamo quindi alla conclusione del nostro iter con l’ultimo compito del medico, quello di curare, conseguente e comprensivo di quanto detto in precedenza e che riguarderà il prossimo capitolo del nostro discorso.

Domenico Mazzullo
http://www.studiomazzullo.com/

lunedì 3 dicembre 2007

Fede e Scienza




"La scienza non salva l'uomo, solo nella fede c'è speranza". In questa apodittica dichiarazione è racchiuso tutto il complesso e dotto pensiero di Papa Benedetto XVI espresso nella sua seconda enciclica "Spe Salvi".


Secondo Papa Ratzinger la speranza viene da Dio, il Dio cristiano, anzi cattolico, per essere più precisi. Naturalmente non è neppure preso in considerazione il fatto che altri uomini possano credere in altre fedi, o che addirittura, horribile dictu, possano essere laicamente agnostici, o atei ed avere tuttavia una propria coscienza personale.


La convinzione del Papa tedesco è che non vi è vero progresso senza etica, non vi è etica autentica senza Dio e il vero Dio ha il volto di Gesù Cristo.


Un discorso ed una convinzione che ad uno psichiatra apparirebbe come paranoica, ma trattandosi del Papa....


P.S. Le foto recuperate da internet rappresentano il Papa tedesco in divisa giovanile, militare e nella attuale divisa.




Domenico Mazzullo


domenica 2 dicembre 2007

Pietà

da: La Repubblica di domenica 2 dicembre 2007
L'ultimo gesto d'affetto è una carezza sul viso all'anziana moglie, 82 anni, malata terminale in un letto di ospedale. Poi le copre il viso con un asciugamano. Tira fuori la pistola. E spara. Un primo colpo in testa. Dopo poche decine di secondi altri due spari, in faccia e al cuore, per porre fine ad un'agonia lunga.
Orrore, ieri pomeriggio intorno alle cinque, all'ospedale «Misericordia è Dolce» di Prato, in una camera del reparto di medicina generale dove sono ricoverate altre cinque donne. Che gridano. «Scusate, ma non ce la facevo più a vederla soffrire, l'ho fatto perché l'amayo» si. giustifica con !'infermiera che accorre dopo il primo sparo e non può impedire che l'anziano finisca la moglie con altre due rivoltellate.
Mara Tani era originaria di Gorizia. Suo marito, Vitangelo Bini, di cinque anni più giovane, aveva lavorato come vigile urbano a Firenze. Vivevano assieme a Prato. Li ricordano come una coppia squisita. Hanno due figli, un maschio sottufficiale in polizia e una femmina vigile urbano. Mara si era ammalata nel 1999 di Alzheimer. La malattia l'aveva consumata giorno dopo giorno, anno dopo anno, uno stillicidio atroce. Ormai era alla fine. Quattro giorni fa era entrata in ospedale, ricoverata al terzo piano nel reparto di medicina generale diretto da Mario Lomi. Lì ieri pomeriggio l'ha raggiunta il marito. Deciso a chiudere una storia d'amore afflitta da otto anni di sofferenza.
Lo hanno fatto entrare fuori dall'orario delle visite, come si fa con i familiari di malati terminali. Nella stanza solo altre cinque degenti, due molto gravi. Lui rimane qualche minuto seduto al capezzale della moglie. Poi l'accarezza, le copre il volto, tira fuori e usa la pistola a tamburo che detiene regolarmente. Un solo colpo alla testa. Poi posa la pistola sul comodino. E chiama la polizia col telefono portatile. Ma l'anziana moglie non è ancora morta, rantola. E quando sulla porta della camera compare un'infermiera, richiamata dal colpo di pistola e dalle urla delle altre pazienti, lui riprende la pistola e spara ancora alla moglie. Un altro colpo alla testa, una terza rivoltellata al cuore.
Un minuto dopo il primo sparo nella camera entrano anche la caposala e poi due agenti di una volante, che si trovano in ospedale per il disbrigo di alcune pratiche. A loro l'anziano ripete la sua disperazione. Lo fa anche più tardi con gli uomini della squadra mobile e della polizia scientifica che lo arrestano e sequestrano l'arma.
«Soffriva troppo, non potevo vederla in quello stato».

Commento. E così un’altra vita è stata spenta in modo tragico ed atroce. A colpi di rivoltella: due alla testa e uno al cuore. In una stanza di ospedale, di fronte ad altre quattro degenti. Il cronista non ci dice se la donna uccisa avesse o meno espresso - nel corso degli otto anni trascorsi in famiglia - la volontà di non voler continuare a vivere in quelle condizioni. La differenza non è di poco conto: nel primo caso sarebbe di fatto - non però di diritto - un suicidio assistito, anche se attuato in modo violento e sanguinario, nel secondo un omicidio vero e proprio, anche se motivato dalla compassione o dall’amore.
Sappiamo però una cosa: anche se Mara Tani non voleva più vivere, anche se avesse messo per iscritto la sua volontà, anche se di fronte ad un notaio, anche se avesse voluto bere una pozione per terminare la sua vita in modo sereno ed umano, ebbene ciò non le sarebbe stato concesso perché in Italia è un reato. Anche in un ospedale ove la "Misericordia è Dolce". Anche grazie a coloro che mentre pontificano “spe salvi”, salvi per la speranza, negano la speranza di morire con dignità. (gps).

Pubblico con molta emozione e commozione la e-mail giuntami questa mattina dalla associazione Libera Uscita della quale mi onoro di far parte e non aggiungo commenti che sarebbero superflui, limitandomi a fornire i recapiti della Associazione:

LiberaUscita Associazione nazionale laica e apartitica per la legalizzazione del testamento biologico e la depenalizzazione dell'eutanasia Via Genova, 24 - 00184 Roma apertura sede: lun-merc-ven. ore 8:30 - 10:30tel e fax: 0647823807sito web: www.liberauscita.it email: info@liberauscita.it