venerdì 26 ottobre 2007
Medico e paziente
Facendo seguito a quanto detto nella puntata precedente riguardo alla opportunità, da parte del medico non specialista in psichiatria, che sospetti nel suo paziente una patologia di ambito psichico, di valutare attentamente con se stesso, l’opportunità di seguire in prima persona il suo paziente, o di affidarlo ad uno specialista di sua fiducia, mi permetto, approfittando della opportunità offertami da questa occasione, di fare un discorso, per me specialista, molto serio ed importante, al presente, ma soprattutto per gli sviluppi a venire che questa decisione comporterà, sul futuro del paziente, soprattutto quando questi è un paziente plausibilmente depresso.
Mentre infatti è fuori di dubbio che una patologia “maggiore” come per esempio una psicosi, sia essa schizofrenica, o maniaco depressiva, o una depressione endogena monopolare, o una temibile depressione post partum è di stretta e unica competenza specialistica, per quanto riguarda le forme depressive “minori” cosiddette reattive, secondo una terminologia in disuso, ma per me sempre valida ed esaustiva, le forme depressive che si manifestano prevalentemente con sintomatologia psicosomatica, le depressioni cosiddette “mascherate”, dette così non certo perché si sviluppano prevalentemente nel periodo di carnevale, ma piuttosto perchè in esse manca, o non è così evidente il sintomo cardinale della depressione, l’umore depresso, o deflessione negativa del tono dell’umore, ma esso è piuttosto sostituito, o sopravanzato da sintomi che in genere fanno corteo al sintomo principale, ma in questo caso sono isolati, o prevalenti, o richiamano maggiormente l’attenzione del paziente e quindi anche del medico, “equivalenti depressivi” secondo una felice denominazione, in questi casi, dicevo, ci troviamo in quella sottile linea di confine, non troppo definita e definibile che separa le competenze del medico di famiglia da quelle del medico specialista.
Se infatti queste forme depressive cosiddette minori sono relativamente facili da diagnosticare, con l’unica eccezione delle depressioni “mascherate”, non altrettanto si può dire per la terapia che richiede competenze specifiche e conoscenze altrettanto specifiche della psicofarmacologia, ma non solo di questa, essendo a volte opportuna piuttosto una psicoterapia, o altre volte una associazione delle due terapie.
Spetta quindi alla capacità professionale del medico, ma anche soprattutto alla sua sensibilità morale il compito non facile, di fronte ad un paziente per il quale abbia formulato una diagnosi di depressione “minore”, chiamiamola così per brevità e facilità, di decidere se sia opportuno prendere in cura personalmente il paziente, consapevole delle responsabilità materiali, ma soprattutto morali che questa scelta comporta, oppure affidare da subito il suo paziente ad uno specialista di sua fiducia.
Nel caso in cui decida di seguire personalmente il paziente, quali sono i rischi ed i problemi cui il medico deve prestare attenzione?
Il primo e più importante è quello, ovviamente diagnostico, per una patologia che a prima vista può sembrare facile da riconoscere, ma che può essere invece infida, ingannevole ed irta di trabocchetti.
Conseguente a questo ed a questo consequenziale è il problema terapeutico, come prima accennavo, che già nella scelta della sola psicofarmacologia, comporta una competenza ed una conoscenza specifica, nonché dimestichezza con gli psicofarmaci, farmaci non pericolosi, ma delicati da maneggiare e purtroppo gravati dal peso di pregiudizi, frutto di disinformazione e cattiva informazione e per questo poco graditi dai pazienti portati ad ipervalutare gli eventuali effetti collaterali, per giustificare un rifiuto della assunzione di questi, dopo una brevissima e conflittuale assunzione.
Un terzo rischio, molto frequente purtroppo e gravido di pesanti conseguenze è specificatamente medico e consiste nella prescrizione di questi, per un criterio di malinterpretata prudenza, o di mancata dimestichezza con questi, con posologia inadeguata, o inferiore a quella terapeutica, ottenendosi così, nella migliore delle ipotesi, il risultato insufficiente di un miglioramento clinico, ma mai di una completa guarigione. Analogo al precedente e per gli stessi motivi il rischio di una terapia corretta nella scelta del farmaco e della posologia, ma interrotta troppo precocemente, con il risultato spiacevole di una guarigione solo apparente, ma non consolidata e la ripresa della sintomatologia depressiva, alla prima difficoltà esistenziale.
Si viene in tal modo ad avvalorare equivocatamente la leggenda falsa della depressione, come malattia inguaribile e dalla quale, una volta entrati, non si esce più.
Per ultima una considerazione di ordine psicologico, a mio parere molto importante: Quando il medico si assume il compito di seguire un paziente depresso deve essere consapevole che si tratta di un impegno gravoso e che dovrà essere condotto personalmente fino alla fine.
Non vi è nulla di peggio per un paziente affetto da depressione, dopo un primo tentativo terapeutico instaurato dal proprio medico ed alla luce dell’insuccesso di questo, vedersi affidato ad un altro medico, uno specialista, per una terapia più appropriata. Può risultare devastante.
Domenico Mazzullo
d.mazzullo@tiscali.it www.studiomazzullo.com
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