martedì 1 gennaio 2008

Per mano

“Giungiamo quindi alla conclusione del nostro iter con l’ultimo compito del medico, quello di curare, conseguente e comprensivo di quanto detto in precedenza”.
Queste le parole con le quali ci siamo lasciati, nella puntata precedente, ormai l’anno scorso, e con le quali vorrei riprendere il nostro discorso sulla depressione.
Curare. Sembra un’ovvietà affermare che rappresenti l’ultimo compito del medico, il più importante, quello conclusivo e definitivo, nel senso del significato etimologico del termine, (dal latino definire = determinare l’essenza o la sostanza di qualcosa), perché l’essenza della figura del medico è rappresentata, in ultima analisi, proprio da questo curare, che costituisce il suo fine ultimo, il suo scopo precipuo, il suo compito specifico, rispetto al quale, i suoi altri interessi, le sue altre attività, le sue finalità, sono subordinate e secondarie. E come medico mi duole dover rammentare, soprattutto e prima di tutto a me stesso, questo principio fondamentale della nostra professione, unico ed inalienabile, dove curare è usato nella accezione più larga e comprensiva del termine, ove significa anche cercare di migliorare le condizioni di vita del suo paziente, quando guarire totalmente, non è più possibile, consolare, quando ogni altra possibilità è preclusa e infine accompagnare il proprio paziente a dare le dimissioni dalla vita, nel modo più consono e più dignitoso possibile, quando si è giunti all’ultimo inevitabile traguardo.
Questo è vero e sacrosanto sempre, a mio modesto parere, ma soprattutto per lo psichiatra che si trovi a curare un paziente depresso, nella piena consapevolezza che il suo compito non si esaurisce certo con la prescrizione di una terapia, possibilmente la più appropriata possibile, ma che anzi questa prescrizione, è forse il compito più facile e più semplice che a lui medico è richiesto.
Curare un paziente depresso significa di più, molto di più. Significa prendersi cura di una persona, un essere umano come noi, sofferente nel fisico, ma ancor di più nell’animo e curare, o meglio prendersi cura dell’animo di un'altra persona, è cosa molto più difficile e impegnativa che curarne il fisico. Significa prendere per mano una persona che spesso è divenuta, è tornata ad essere un bambino e che a noi si affida con la ingenuità e la speranza, la fiducia totale propria dei bambini ed accompagnarlo, come un genitore previdente ed accudente, ad essere, a tornare ad essere, un adulto.
Significa accompagnarlo a riappropriarsi della propria vita, a riprendere la strada maestra della propria vita, “quando la diritta via era smarrita”, essendo sempre al suo fianco, ma mai davanti a lui, essendo sempre presente, ma mai invadente, avendo come unico scopo la sua guarigione, il suo ritorno alla vita precedente l’insorgenza della malattia, casomai anche migliore di quella precedente, con la consapevolezza, a volte un poco per noi dolorosa, che quel paziente, che ha fatto parte per un certo periodo di tempo della nostra esistenza di medici, che ci ha preoccupato, che può aver reso agitate le nostre notti, che abbiamo accompagnato per un tratto importante della sua strada esistenziale, al quale siamo stati affianco in occasione di scelte importanti per sé e per gli altri, una volta guarito, una volta ristabilito, una volta tornato ad essere un adulto autosufficiente, si congederà da noi e forse di lui, dopo aver condiviso con lui un frammento di vita, non sapremo più nulla.
Curare un paziente depresso è come adottare un figlio, vederlo crescere, aiutarlo a diventare adulto, per poi vederlo andare via, libero, per la sua strada.
Ma per fortuna, per noi medici, c’è subito un nuovo figlio da adottare.
Non potrò mai dimenticare una mia paziente di tanti anni addietro, una farmacista che, guarita dalla depressione, era stata colpita, in seguito, da gravi disgrazie nei suoi affetti più cari. Tornava a volte a trovarmi, per raccontare di sè, e una volta di queste ebbe a dirmi: ”Dottore io so che non sono depressa e che quindi lei non può fare nulla per me e per le mie disgrazie, ma vengo lo stesso da lei, per farmi accarezzare l’anima”
Curare un paziente depresso e vederlo guarire, vederlo uscire piano piano dal baratro, dal pozzo nero della depressione è quanto di più umanamente entusiasmante, gratificante, consolante possa esistere per un medico, è ciò che da un senso e un significato alla propria esistenza di medico.
Significa vedere, aiutare una persona sofferente, a rinascere, o a nascere finalmente e per la prima volta, significa restituirlo alla vita. Sinceramente non credo possa esistere esperienza più grande per un medico, soprattutto, se come me, anch’egli ha provato su di sé l’esperienza della depressione.
Ma come avviene tutto questo? Come si realizza ed è possibile questo miracolo?
Noi psichiatri d’oggi siamo fortunati, rispetto agli psichiatri dell’ottocento e della prima metà del novecento, i quali, nei confronti delle malattie che cercavano e desideravano curare, erano completamente inermi e dovevano accontentarsi di osservare, custodire i propri pazienti, accudirli, nella migliore delle ipotesi consolarli e attendere che malattie come la depressione guarissero da sole. Altre purtroppo non guarivano.
Oggi, come dicevo, siamo molto più fortunati di chi ci ha preceduto, perché abbiamo dalla nostra parte uno strumento, che altri medici, di branche diverse già possedevano, ma a noi psichiatri era ancora negato, i farmaci, nel nostro caso gli psicofarmaci.
A questi e alla terapia più in generale, sarà dedicato il prossimo capitolo.
Buon Anno Nuovo a Tutti

Domenico Mazzullo
www.studiomazzullo.com

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