domenica 14 novembre 2010

Un caso di coscienza


Abituati come siamo, a leggere nelle pagine dei giornali, o peggio vedere in televisione le notizie e le immagini, spesso raccapriccianti ed inutili di morti violente di uomini, per mano di altri uomini, ci sembra quasi che senza una o più morti, senza cadaveri in bella vista, per il macabro godimento degli spettatori, la notizia non sia una notizia, non sia degna di essere pubblicata e diffusa.
Per questo motivo sono stato oggi molto colpito, direi favorevolmente colpito, dal risalto che alcuni quotidiani, tra quelli che leggo, hanno dato ad un evento conclusosi senza morti e feriti, senza spargimento di sangue, ma che ci fa riflettere, che ci obbliga quasi a riflettere e a prendere posizione in quanto esseri umani appartenenti a questa comunità, ci impone di porre e di proporre alla nostra coscienza un quesito, un interrogativo un dubbio, che solo nel nostro intimo ed in solitudine con noi stessi, possiamo cercare di risolvere.
Il fatto è recente, ma non appartiene al nostro paese, così ahimè abituato a casi di malasanità che vedono medici indagati per inadempienze, per incompetenze, per fatali leggerezze nei confronti dei poveri pazienti, ma è avvenuto in Germania, a Padenborn una città della regione occidentale del Nord-Reno-Vestfalia.
In ospedale il paziente, un uomo di 36 anni era già stato anestetizzato. Ma quando il chirurgo che si apprestava ad eseguire l'intervento ha visto il tatuaggio che campeggiava su un bicipite (la classica aquila posata su una croce uncinata simbolo del nazismo) si è tirato indietro. Letteralmente. Si è tolto la mascherina dal viso, ha svestito il camice verde ed è uscito dalla sala operatoria, pregando un altro chirurgo presente di operare al posto suo il paziente.
All'esterno, in una sala d'attesa era seduta la moglie del paziente. Il quarantaseienne chirurgo le si è rivolto direttamente con poche, ma inequivocabili parole:"Io non opererò suo marito, signora, non posso, perchè sono ebreo, la mia coscienza non me lo permette.". L'altro chirurgo ha preso il suo posto, l'intervento è stato eseguito con esito felice, il paziente sta bene.
Seguiva l'articolo del giornale il commento di una giornalista, che leggo sempre, che stimo ed ammiro per il Suo coraggio e la Sua lucidità, Fiamma Nirenstein, di evidenti, come svela il Suo nome, origini ebraiche.
La giornalista, pur comprendendo le motivazioni del chirurgo e cogliendo in esse delle attenuanti, ne stigmatizzava l'operato intitolando l'articolo di commento " Ha sbagliato da medico e da ebreo. Salvare la vita viene prima di tutto" sintetizzando con queste parole il Suo pensiero poi diffusamente espresso.
Come medico, istintivamente e senza riflettere, mi sono sentito dapprima solidale con il pensiero della giornalista, così lucidamente e logicamente manifestato, ritenendo che il mio collega ebreo-tedesco fosse venuto meno a quanto per noi medici è sacro ed inviolabile, il Giuramento di Ippocrate che ci obbliga a prestare le nostre cure a chi ha bisogno del nostro operato, prescindendo da ogni altra valutazione di tipo personale, qualunque essa sia, senza se e senza ma.
E' estremo ed evidente, per esempio, il caso in cui, in guerra un medico è obbligato ad esercitare la propria opera di aiuto nei confronti di nemici, o amici, se si trovano in caso di necessità.
Altrettanto perentorio è l'imperativo categorico per ogni medico di prestare soccorso spontaneamente ed immediatamente a chi ne avesse bisogno e si trovasse in pericolo.
Fermo rimanendo tale inalienabile ed incontestabile principio, riflettendo però con calma e tempo necessario e liberandomi dalla emozione immediata che la lettura della vicenda ha in me suscitata, sono stato costretto a rivedere la mia posizione ribaltando completamente la mia deduzione.
In primis, nel caso in questione non si configurava la fattispecie di assoluta urgenza ed emergenza ed uno stato di necessità, essendo il paziente ricoverato in ospedale e soprattutto essendo un altro chirurgo in grado di intervenire al posto del medico che rinunciava ad operare e quindi a prendersi cura del paziente.
Ben diverso sarebbe stato il caso in cui il chirurgo ebreo fosse stato l'unico in grado di operare, o l'unico medico presente e disponibile, configurandosi in tale ipotetica circostanza uno stato di assoluta necessità, che assolutamente non avrebbe permesso al medico di sottrarsi al proprio dovere.
Ma la spiegazione dell'operato del chirurgo, che si è rifiutato di operare è tutta nelle sue stesse parole, nelle poche lapidarie parole che ha rivolto alla moglie del suo paziente:"Io non opererò suo marito, signora, non posso, perchè sono ebreo, la mia coscienza non me lo permette".
Attenzione, il medico non ha detto "non voglio", ma ha detto "non posso" e ha aggiunto "la mia coscienza non me lo permette". Quale coscienza? Di ebreo? Di medico? O ambedue?
La chiave di lettura dell'operato del medico è tutta in quel suo "non posso".
Ogni medico sa bene e deve sempre tener presente, che quando non si trova in una condizione di assoluta necessità, come ho specificato in precedenza, se le sue condizioni sia psichiche che fisiche non sono tali da poter offrire al paziente il meglio di se stesso ,o le sue capacità e competenze professionali non sono tali da farlo sentire adeguato al compito, deve, rinunciare ad esercitare la sua professione nei confronti del paziente.
In questo caso specifico non si trattava ovviamente di competenze professionali, essendo il medico un chirurgo pronto ad operare, quanto piuttosto di una situazione psichica ed emotiva, venutasi a creare, al momento della constatazione, per il medico ebreo, essere il suo paziente un neonazista.
Mi è facile immaginare come il medico possa essersi sentito non perfettamente libero ed esente da emozioni e turbamenti d'animo, da sentimenti comprensibili e facilmente immaginabili che avrebbero potuto renderlo, secondo la sua coscienza, non perfettamente lucido ed adeguato al delicato compito cui si accingeva e constatando questo, giustamente e doverosamente ,abbia rinunciato ad operare, affidando il paziente ad un altro chirurgo.
Ben diverso sarebbe stato il caso in cui, egli fosse stato l'unico chirurgo a poter operare.
In tale circostanza il medico, con tutti i suoi turbamenti, sarebbe stato costretto, dal suo dovere, ad operare.
Rovesciando le circostanze è lo stesso motivo per cui la maggior parte dei medici rinunciano o rifiutano di prendersi cura dei propri familiari, proprio perchè non si sentono liberi da coinvolgimenti affettivi nei loro confronti, che li renderebbero non obiettvi e lucidi nella diagnosi e nelle terapie eventuali.
Mi rendo conto che tutti questi possono, o potrebbero sembrare discorsi accademici e forse superflui, visto che tutto poi si è risolto positivamente. Forse lo sono, forse così penserà chi ha avuto la pazienza di leggermi fin qui, ma non per me, per me uomo e soprattutto medico, per il quale rappresentano una necessità, un motivo di riflessione, di approfondimento, di autocritica anche e naturalmente, di autocensura.
Ma una ultima riflessione mi viene fornita dall'episodio e va ad aggiungersi alle tante constatazioni, più volte fornitemi sull'argomento, dalla esperienza personale e professionale.
Spesso ed a me è accaduto, come dicevo anche in questa ultima circostanza, esprimiamo giudizi e valutazioni sulla scia di emozioni e passioni, di stati d'animo emotivi, giudizi che poi devono necessariamente non fermarsi lì, ma essere assolutamente sottoposti al vaglio ed alla critica serrata della nostra ragione, che spesso giunge ahimè a conclusioni diametralmente opposte alle prime formulate, creando entro di noi un conflitto difficile da risolvere tra sentimento e ragione.
Ma sentimento e ragione sono veramente due funzioni della nostra psiche l'una contro l'altra armate? E' mai possibile che entro di noi si sviluppi quotidianamente una lotta intestina tra le due? O non è forse più vero che entrambe le due funzioni siano necessarie alla nostra esistenza e si adoperino con modi, ma soprattutto tempi diversi, per condurci ad un giudizio sulla realtà che ci circonda?
Il sentimento infatti, inteso in senso lato, ci porta a conclusioni rapide, ma necessariamente imprecise.
La ragione, più lenta, ci permette di esprimere giudizi più tardivi, ma certamente più precisi e circostanziati.'
Uno ha quindi il vantaggio della velocità nelle conclusioni, l'altra di una maggiore precisione. Forse se riuscissimo ad usare entrambi gli strumenti, raggiungeremmo migliori risultati.
Mi piace concludere a questo proposito, con la frase di un grande psichiatra dei primi anni del secolo scorso, Kurt Schneider, Che considero il mio Maestro, pur essendo Lui scomparso quando io ero da poco nato, ma avendo studiato e spero compreso tutti i Suoi libri:
"Un uomo che fosse solo sentimento, non sarebbe ancora un uomo. Un uomo che fosse solo ragione, non sarebbe più un uomo".
Grazie per avermi letto fin qui.
Domenico Mazzullo
d.mazzullo@tiscali.it
www.studiomazzullo.com

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